mercoledì 17 novembre 2010

Crossroads

Meet me
I'll offer you my wrist
Till it comes the morning mist
Bite me.

See me
Through the bushes and through the wrath
When I'm diverting from my path
Bite me.

Catch me
Force me to pay all I owed
In an hidden crossroad
Bite me.

Love me then
Take my breasts, my neck, my blood
My best, my wreck, my bud
And free me.

Wait, devil of the surface
You don't care 'bout my words
So save your four chords
Stop whispering in my ear
The only thing I fear
Is your lack of scent -so sad
It means you are dead-

sabato 10 luglio 2010

La rosa delle praterie planetarie #2



L'arteriosclerosi delle parole





Rosa arrivò a San Pietro in Vincoli che era quasi mezzogiorno. Il tragitto in metro le aveva appiccicato il sudore alle tempie, e la carrozza era una splendida serra con uomini a temperatura di rugiada. Quando varcò le porte scorrevoli e mise un piede dopo l'altro sulla banchina, un ragazzo chiamò un nome nell'eco della galleria rombante, e Rosa si voltò subito, per istinto. Una graziosa biondina vestita di pizzo sangallo corse fino alla sorgente del richiamo e buttò le braccia al collo del ragazzo. Le tornò in mente l'ultima volta che era stata a Londra.

Indossava un vestito blu molto corto, dei tacchi vertiginosi di un blu più chiaro. Quel giorno si era comprata un flacone di profumo alla lavanda da Liberty, 45 £; la commessa l'aveva convinta che era adatto ad una certa femminilità. L'essenza era svanita subito, coperta dal fumo di Londra; le lacrime erano diventate nere, scendevano a poco a poco mentre deglutiva; il suo cervello ci metteva sempre un po' a tradurre dall'inglese. Quella volta capì subito. I piedi di lui salirono veloci la scala, poteva ancora vederli mentre si era immobilizzata in una posizione scomposta, in piedi, traballante come un origami. Si soffiò il naso e usci muco nero. Odiava la fuliggine di quella cazzo di metropolitana.

Il flacone finì in un cassonetto di Hemel Hampstead e non ci pensò più.

Quando arrivò nella piazzetta si era scordata di contare gli scalini. La campana della chiesa l'aveva distratta e aveva pensato solo a ciò che l'aspettava all'università: una mostruosa opera di persuasione.
Dal libro di "acciai e leghe non ferrose" di Walter Nicodemi che teneva stretto sotto l'ascella, scappò il foglio sul quale aveva sgorbiato la notte prima. Troppo lucida di giorno, troppo priva di inventiva, aveva il tempo di sfogare il suo ingegno solo in facoltà, e la ricerca del suo moto perpetuo si era arrestata a far girare un cuscinetto a sfera da 7 sul braccio. Stimolata dal dormiveglia, le era nata un'idea:

"ho conosciuto persone. soffro, come tutti. gioisco, come pochi, e solo 3 volte alla volta, e non in tutto. per parlare ho bisogno di tutto il corpo a disposizione, dei muscoli facciali, di quelli delle gambe per spostare il peso da un piede all'altro, di quelli delle mani per toccare l'interlocutore. questo è la meccanica naturale dei miei gesti. tanto questa danza è armoniosa e niente è fuori posto. poi ho cominciato ad ADEGUARMI. un giorno, non so quando, ho deciso addirittura di cominciare a SOFFRIRE DI MENO. fu così che persi la prima parola. non che fosse una gran perdita. cominciai a non usare più le parole Obsolete, poi quelle Onomatopeiche. tenni i Neologismi e li usai con cautela. dimenticai molti Verbi e con loro certe sensazioni, conservai gli stati d'animo più comprensibili, facili oggetti di confidenza per le emergenze buie. lasciai perdere molti nomi di Oggetti che non usavo, tenni a mente gli equivalenti in inglese, non si sa mai. alcuni Nomi Propri non mi servivano più perchè spesso si ripetevano. un giorno cominciai a non riconoscere più le persone. molti si ripresentarono, ma usai le Parole Mondane per distrarli e riparare alla gaffe. mi chiesi se avevo qualche parola per riconoscere i profumi. non ne avevo, tanto meglio. continuai da allora a perdere molte parole, a ritrovarmi in giorni affollati di immagini mentre in altri camminavo in penombra. in una sera buia e un po' umida, mi tirai le tenebre fin sotto al mento. la mattina dopo mi svegliai e non sapevo più parlare."


A rileggerlo non le sembrò un granchè. Tra l'altro le ricordava che una storia del genere esisteva già: Il libraio di Selinunte di Vecchioni. Se anche i dormiveglia le davano idee banali, decise che non c'era più niente da fare. Non poteva neanche pensare che certe idee sono immanenti alla mente umana, radicate nelle pieghe cerebrali e negli interstizi poco usati, insomma rifiutò di appellarsi agli archetipi dell'inconscio collettivo: anche quelli esistevano già.

lunedì 5 luglio 2010

La rosa delle praterie planetarie #1

Il Risveglio



Onde radio, frequenza 90.9 MHz. La valle era gravida di una canzone di Regina Spektor, il primo picco accese la radiosveglia. A un volume un po' invadente. Invece di sobbalzare come al solito, Rosa rimase parecchio a fissare la penombra che la avvolgeva come un velo grigio. Non cercò di indovinare la canzone, né spense l'apparecchio. Sperò che il dormiveglia non l'abbandonasse subito per potersi ricordare cosa stesse sognando: di volare, ma non proprio; di nuotare in alto come se ci fosse l'acqua al posto dell'aria, di fluttuare vicino al sole, guardandolo da sotto uno specchio d'acqua, liquido e tremante, vivo nel suo irraggiamento.
Questo le ricordò quando da bambina si era ribaltata da una di quelle stupide ciambelle con i buchi per le gambe. Mentre i suoi genitori parlavano con una signora che doveva vendergli una casa, un onda, con la forza di un alito di vento, la fece ribaltare. Rosa era sempre stata convinta di essere riuscita a respirare sott'acqua, quella volta. E anche di aver parlato con Dio. La signora gridò: "la bambina!" e i suoi si precipitarono in acqua afferrandola per le caviglie. Erano in Sardegna. La ciambella finì in un cassonetto e non se ne parlò più. Questo era il suo primo ricordo.
La voce grave dello speaker interruppe i suoi pensieri mentre scivolava di nuovo nell'incoscienza. Trovò a tastoni il tasto di standby, si stiracchiò, scostò la zanzariera di velo grigio e andò in cucina.
Dopo il caffè, l'inquinamento acustico della casa peggiorò: per un paio d'ore e contemporaneamente vennero accesi la lavatrice, l'aspirapolvere, la televisione e poi anche il rasoio del padre. Il fratello no, lui usava il pennello da barba e la lametta.
"guarda, abbiamo fatto due figli vintage"
gli diceva sempre il padre, e non mancava mai di farlo la Domenica, quando tornavano a casa per pranzo portando un pacchetto stropicciato in un foglio di giornale. Una volta era una macchina fotografica tedesca da restaurare, un'altra volta un vasetto di ceramica da farmacista.

"e cos'ha di speciale questo coccetto?"
"mi serve per i batuffoli di cotone"
"guarda che li vendono già confezionati"

Era tutto fiato sprecato.
Rosa scavalcò la borsa del calcetto e aggirò con un paio di salti il suo contenuto, che era riversato a terra nel corridoio che collegava le due camere. Renato si stava radendo e sembrava di buonumore; infatti fischiettava, e non essendone capace, non lo faceva mai. Vide passare la sorella dietro di lui e le fece un cenno attraverso lo specchio. Poco dopo aveva chiuso la porta blindata dietro di sé ed era già in strada con la musica in cuffia, diretta a San Pietro in Vincoli.

sabato 5 giugno 2010

Lust for Clubs

Un'idea buona ogni tanto mi esce. E così, durante una crisi isterica causata dalle esercitazioni di Diritto Commerciale, ho pubblicato un certo status su facebook e su questo Mark Zonda ha composto una certa canzone.

Musiche e testi qui

Sogno in technicolor #1


Il tunnel dell'alcool esiste. Io l'ho visto!

Qualcuno voleva farmi del male in pieno giorno, alla luce del sole, me lo sentivo. Camminavano lenti con me, e io non mi misi a correre, sarebbe stato peggio avere qualcuno alle calcagna senza sapere cosa volesse. Così mantenni il controllo e mi mostrai indifferente, quasi compiaciuta.

"dove mi state portando?" -chiesi con gentilezza-
"in un bel posto. ti piacciono le invenzioni?"
-annuii senza togliermi quella patina di cortesia-
"allora ti piacerà provare questo nostro prototipo."

Il resto della strada lo feci in silenzio. Le figure che mi accerchiavano continuavano a chiacchierare tra loro senza togliersi quello sguardo sbavante.
Arrivammo in un capannone illuminato da luci al neon, color bianco sporco, simile a una stazione della metro. Potevo vedere le chiazze di umidità farsi strada attraverso i muri imbiancati da poco, che non avevano resistito all'incedere dell'acqua. Sembrava che avessero messo delle pezze per farlo sembrare più... normale. Ma l'acqua vinceva sempre.

Mi posizionarono di fronte all'imbocco di un tunnel minuscolo. Una TAC con una fodera in technicolor. Colori COMPLEMENTARI. Il giallo vicino al viola, l'azzurro vicino al rosso. Dovevo scenderlo come uno scivolo, seduta su un altro cuscino in technicolor. Nel tunnel faceva caldo e non si respirava, il tessuto si arricciava e si ammalloppava, bloccandomi nelle curve senz'aria. Cedetti e usai la cannuccia di emergenza, che sporgeva dal tessuto. Respirai nuovamente e fu come scampare all'annegamento. Fu a quel punto che mi districai dall'ammasso floscio di quella giostra, scavalcai l'anello dell'imbocco e cominciai a correre senza mai guardarmi indietro.

A quel punto mi svegliai e capii perchè avevo sognato la cannuccia d'emergenza. Quella sera tornavo da una cena di compleanno solo-donne. Per la precisione 12 donne e 10 bottiglie di bianco. Tornando a casa, canticchiando, tirai fuori un alcool test usa e getta che mi hanno regalato all'università. Come potrebbe un ubriaco fare una cosa del genere? Bisogna rompere due tappetti all'estremità della cannuccia, far scivolare via i sali da una parte e dall'altra, poi soffiare in una busta di plastica con un foro e ficcarci dentro un'estremità della cannuccia. Poi aspetti che i sali si colorino. Fino a dove diventa verde, tanto sei ubriaco.

0,5

però i cristalli erano proprio belli.

venerdì 4 giugno 2010

Uova & Sofferenze




Nel frigo non c'era niente di commestibile, ma l'Orso aveva fame, e si vedeva perchè si era già messo a tavola. Aveva provato ad apparecchiare, e quando apparecchia lui me ne accorgo perchè è diverso da come lo faccio io: io metto un tovagliolo di carta piegato a triangolo a destra del piatto, con sopra tutte le posate. Lui invece mette la forchetta a destra e il coltello a sinistra, e si dimentica sempre il tovagliolo. Una volta ho provato a fargli notare che almeno doveva invertire le posate. Lui in tutta risposta ha alzato le spalle e ha continuato a guardare nel frigo. Anche se non sembra, l'Orso conosce tutto il galateo, ma quando è in casa dimentica alcune regole. Mi ha spiegato che è perchè le conosce tutte, e sa come infrangerle.
Oggi non sapevo che pesci prendere, in frigo era rimasta una piadina rinsecchita, del prosciutto scongelato e il solito limone che con il suo giallume si vedeva attraverso il vetro opaco del cassetto della frutta&verdura. Quattro uova rosa però stavano dritte nel loro scompartimento, senza dire una parola. Tre di queste le misi nel pentolino a sodare. L'altro lo misi da parte per strapazzarlo. Mi piacciono le uova, e se degli stupidi nutrizionisti bacchettoni non avessero sparso la voce che bisogna mangiarle massimomassimo una volta a settimana, io le mangerei tutti i giorni. Quando si sodano sono bellissime: la loro morbidezza mi ricorda gli anni '90. Sempre lucide e perfette, bianchissime e piene di onore. E' la geometria che preferisco. Avrebbero dovuto fare la piramide alimentare a forma di uovo.
Tolsi con cura il guscio appuntito (spero sempre di trovarci il pulcino), le spaccai a metà, ci versai sopra la maionese e misi tutto sotto il naso dell'Orso. Compiaciuto, mise uova e prosciutto scongelato nella piadina rinsecchita e finì tutto con un morso. Ebbe da ridire sul mio uovo strapazzato.

"perchè te lo cucini così?"
"perchè mi piace.."

-pausa-

"lo sai come sono buone le uova?"
"no, come?"
"in camicia"
"non mi piacciono le cose cotte nell'acqua"

Spadellai l'uovo nel piatto e cominciai a mangiare a bocconi piccoli. L'Orso aveva voglia di parlare.

"lo sai che il figlio di Strelitzia è uscito dall'ospedale?"
"e come sta?"
"gli manca l'ospedale. e il cibo dell'ospedale. non che fosse proprio un ospedale, sembrava di più una villa. si è trovato bene, anche con i compagni di stanza"
"anche io mi trovo bene negli ospedali. mi sento al sicuro"
"è quello che ha detto anche lui. si solidarizza nei luoghi di sofferenza, più che in quelli ameni. sono le condizioni peggiori a rendere le cose straordinarie"

feci una carezza all'Orso e cominciai a sparecchiare.

Bla Bla Bla

Ecco un nuovo posto in cui blablare: da un tetto. Da così in alto è più facile distinguere le cose, recuperare la prospettiva giusta e lontana che la miopia mi ha tolto. E non parlo solo di diottrie perse sui libri del Battello a vapore e Topolino, nè su videogiochi e giochi di ruolo, nè sui tomi dell'università. Non è colpa della luce, che è sempre troppo poca, ma del fatto che quando si legge si è troppo vicini, troppo dentro alle parole. E così, a forza di sguerciarsi ed immedesimarsi, quando ore svolazzano e non si è combinato niente, alzo lo sguardo e non distinguo più le forme reali. La stanza in quel momento è popolata di personaggi, evanescenti e translucidi. Quando mi avvicino alla finestra, il vento mi schiaffeggia e mi riporta all'ordine, la città mi abbaglia con le sue luci, mi colpisce in faccia con i profumi come una palla da demolizione (cit.) e mi ricorda che ho lasciato il caffè sul fuoco.